Prende il nome dal luogo ove si riunivano gli uditori, magistratura di vertice dell’Arte.
Tra le corporazioni delle arti a Perugia, le più potenti furono quelle della Mercanzia e del Cambio per il significato che assunsero nella vita urbana e nel governo della città.
La matricola del Cambio del 1377 dice esplicitamente “Ars Cambi quae est pars magna totius Reipublicar Civitatis”. Scopi principali dell’arte furono quelli di vigilare sulla legittima commutazione del denaro e di pronunciare sentenze su cause civili nell’ambito delle proprie specifiche competenze, per cui il Collegio assumeva le funzioni di tribunale.
I lavori per la nuova sede, compresa entro il Palazzo Pubblico, iniziarono nel 1452 e furono ultimati nel 1457. A partire dal 1490 si cominciò a decorare l’ambiente; dapprima fu il fiorentino Domenico del Tasso a realizzare il bancone e i postergali.
Nel 1492 venne da Firenze la statua della Giustizia, in terracotta dorata, attribuita a Benedetto da Maiano.
Il 26 gennaio 1496, i consoli insieme ai giurati, stabilirono di far dipingere le volte e le pareti e, poco dopo, venne stipulato il contratto con Pietro Perugino, di cui recentemente è stato rinvenuto il preliminare originale.
I lavori cominciarono dalla volta dove, nelle sette vele, furono rappresentate figurazioni allegoriche dei pianeti Luna, Mercurio, Marte, Saturno, Giove, Venere con al centro Apollo, in una ricca decorazione a grottesche, ove si inseguono figurazioni decorative e mostruose, le cui fonti sono da rintracciarsi sia nel mondo antico, in specie nella “Domus Aurea” neroniana, sia in quello moderno, nei motivi ceramici, nell’araldica locale, negli ornamenti a finto mosaico, secondo partiti già utilizzati nei soffitti romani del Pinturicchio.
Compiuta questa parte dell’impresa dai discepoli del Maestro su suoi disegni, si passò alle pareti dove il tema iconografico venne dettato dall’umanista Francesco Maturanzio, professore a Vicenza ed a Venezia, e dopo il suo ritorno in patria, verso il 1498, segretario dei Decemviri. Al Maturanzio si devono i magniloquenti versi latini che figurano nelle tabelle esplicative rette da putti ed inserite negli affreschi, da cui si desume il pensiero conduttore di pura marca neoplatonica.